Ogni cosa ha un inizio
Uomini e territorio, da secoli, tramandano bellezza
Sono trascorsi più di due millenni da quando gli Etruschi iniziarono la lavorazione dell’alabastro che, ancora oggi, a Volterra, è trasformato, da abili mani, in oggetti unici e bellissimi. Alle botteghe artigiane rimaste nel centro storico – fondamentali nell’economia del territorio fino alla metà del secolo scorso – è affidata la conservazione della tradizione e il compito, difficile e indispensabile, di indirizzarla verso la modernità.
Allora come oggi
Una tradizione iniziata più di duemila anni fa
IL PERIODO ETRUSCO
La “scoperta” dell’alabastro
Dobbiamo agli etruschi insediati a Volterra la “scoperta” dell’alabastro di cui erano ricche le immediate vicinanze della città. Già alla fine del VIII sec. a. C., come testimoniato dalla Tomba di Badia, composta da lastre di marna gessosa presente nelle cave di alabastro, gli Etruschi erano venuti in contatto con questa pietra, ma è soltanto con il III a. C. e forse per merito di artigiani provenienti dalla Grecia, che essa fu sfruttata per la realizzazione di monumenti funerari. In effetti, per tre secoli (dal III al I a.C.) l’alabastro fu utilizzato quasi esclusivamente per scolpire casse e coperchi di urne destinate alla conservazione delle ceneri dei defunti, escluso qualsiasi altro utilizzo per oggettistica o costruzione di uso civile. Fanno eccezione un cratere e una statuina di donna con bambino, oggetti, anch’essi comunque legati al mondo funerario.
L’alabastro fu, dunque, per gli etruschi, la pietra dei morti: ne fa fede la grandissima quantità di urne (delle quali oltre 600 conservate al Museo Guarnacci) provenienti da un contesto molto definito, la città di Volterra e il suo territorio.
A parte la rara produzione in terracotta, rappresentata da pochi isolati esemplari, la produzione volterrana di urne è quasi equamente distribuita fra quelle di calcare (impropriamente definito localmente “tufo”) e l’alabastro. Quest’ultimo materiale – decisamente più prezioso – fu utilizzato a partire dai decenni finali del III secolo e fu destinato all’esecuzione degli esemplari di maggior qualità, di dimensioni maggiori (60/100 cm di lunghezza) dettagliatamente scolpiti, dipinti e anche talora dorati. È chiaro che essi fossero destinati ad una clientela di adeguate disponibilità economiche.
I luoghi dell’alabastro
Il materiale impiegato era esclusivamente pietra locale: sebbene anche le cave di Castellina Marittima conservino tracce di antiche escavazioni che la tradizione locale attribuisce all’epoca etrusca, considerata la distanza e la difficoltà dei trasporti è assai poco probabile che esistesse, anticamente, un traffico tra quella località e Volterra.
Nelle località di Ulignano e Gesseri, nelle immediate vicinanze di Volterra sono state evidenziate tracce di antiche escavazioni di qualità di pietra che si ritrovano in urne del Museo Guarnacci. Queste cave sono rimaste inattive fino alla metà del 1500.
Il sistema di lavoro di questi antichi scavatori prevedeva l’uso di subbie al posto del piccone e lo sfruttamento delle cave era estremamente superficiale, forse per la necessità di dover lavorare solo con l’ausilio della luce del sole. Gli Etruschi prediligevano per i loro manufatti alabastri poco venati, di tonalità calda, tendenti all’avorio, simili, esteriormente, al marmo e non era loro costume “bollire” la pietra. Per completare le sculture, talora veri e propri capolavori, erano utilizzati colori minerali a pittura superficiale o dorature con foglie d’oro applicate.
Le urne in alabastro
Le urne venivano prodotte in botteghe artigiane non dissimili da quelle tuttora esistenti nella città di Volterra dove opera un maestro coadiuvato da collaboratori. Nel periodo della massima produzione di urne (II secolo a.C.) non dovevano coesistere più di tre botteghe che nell’arco di un anno producevano 5/6 urne ciascuna. L’esistenza di forme di apprendistato – e i figli del maestro sicuramente lavoravano al suo fianco – all’interno di queste unità produttive giustifica la persistenza di tecnologie, iconografie, modelli, schemi compositivi, che costituiscono la tradizione della bottega stessa. Con ogni probabilità – ma senza dati di riscontro precisi, dal momento che non vi sono attestazioni epigrafiche al riguardo – operavano a Volterra artigiani di origine e formazione greca, che spiegano la presenza di urne di eccezionale livello qualitativo. La mancanza di firme di artefici impedisce un loro esatto inquadramento all’interno della compagine sociale. È assai probabile che in un contesto fortemente connotato in senso aristocratico come quello volterrano la considerazione degli scultori fosse estremamente bassa, anche se forse non identificabile con quella di schiavi.
La produzione cessa dopo una fase di lento declino in epoca romana, periodo durante il quale fu preferito rispetto alla pietra locale il marmo proveniente dalle Apuane.
DAL MEDIOEVO AL CINQUECENTO
Il declino dell’alabastro
Nel medioevo l’uso dell’alabastro cessa quasi completamente. Gli unici oggetti a noi noti realizzati con questo materiale sono due capitelli, databili al XII secolo, provenienti dalla chiesa di S. Giusto o dal vicino monastero.
I due capitelli, di piccole dimensioni, dovevano essere parti di un ciborio o di un ambone e, insieme ad altri elementi che non si sono conservati, colonne, archetti e altri capitelli, facevano parte della decorazione scultorea dell’edificio.
I capitelli sono decorati con simboli cristiani tratti dall’iconografia antica: una sirenetta bi-codata in particolare, simboleggiante la lussuria, rimanda a figure simili presenti su urne etrusche e a capitelli coevi presenti in chiese e monasteri d’Oltralpe. Le aquile che reggono una pergamena sono simbolo dell’evangelista Giovanni. La figura umana con la mano destra nella bocca del leone rappresenta il domino della bestialità da parte del santo.
La rinascita dell’alabastro
Il vero rinascimento dell’alabastro, con la sua riscoperta come materiale di pregio, avviene nella seconda metà del Cinquecento, quando alcuni artisti volterrani lo utilizzano per realizzare manufatti d’arte sacra: tabernacoli, cibori, acquasantiere, candelabri, colonne, che furono commissionate per diverse chiese della città.
Il primo scultore che avrebbe lavorato l’alabastro è Bartolomeo Rossetti, che nel 1549 fece una coppia di candelabri d’alabastro, che furono donati da un volterrano a una chiesa di Firenze. La famiglia Rossetti ben presto si specializzò nella lavorazione dell’alabastro cui si dedicò anche il fratello di Bartolomeo, Giovan Paolo, che fu anche apprezzato pittore, e il padre Francesco. A costoro si deve, probabilmente, anche l’introduzione della tornitura nel processo di lavorazione.
Leonardo Franceschini nel 1567 fece un tabernacolo di alabastro per la chiesa di S. Pietro. Nel 1575 vi furono collocati accanto due grandi candelabri in alabastro realizzati da Cammillo Spenditori. Al 1574 risale il più imponente e famoso monumento: il ciborio della chiesa di S. Andrea, ora presso il Museo d’Arte Sacra di Volterra.
L’evoluzione della lavorazione artistica
Ben presto gli oggetti in alabastro prodotti dagli artisti volterrani furono apprezzati al di fuori della città ed arrivarono commissioni di lavori da tutta la Toscana e anche dall’estero, dando vita ad un commercio di opere artistiche di cui ancora non conosciamo appieno la portata. Ancora nel Seicento la produzione si caratterizza per la realizzazione di opere soprattutto di arte sacra, mantenendo una continuità con le tipologie del secolo precedente. Solamente nella seconda metà di questo secolo si comincia a orientare la manifattura dell’alabastro verso un indirizzo commerciale. Lavori di apprezzata qualità si affiancano, così, ad oggetti di minor pregio, destinati ad un mercato di privati, che richiedono altri tipi di prodotti come riproduzioni di opere classiche, busti o vasi.
In questo secolo è documentato per la prima volta l’uso dell’alabastro per le lampade, era allora uso comprare vasi di alabastro di piccole dimensioni per collocarli in camera da letto e porvi una candela accesa all’interno. La trasparenza traslucida dell’alabastro consentiva di avere un lume sufficiente, ma non fastidioso.
Nella seconda metà del Settecento le scatole da tabacco in alabastro sono un prodotto particolarmente apprezzato. Ma il maggior reddito, allora, proveniva dalla realizzazione delle cosiddette anime. Si tratta di grani di alabastro, che venivano spediti a ditte romane specializzate nel rivestirle in modo da realizzare false perle, che venivano usate come grani di rosario o perline per vestiti e decorazioni.
NELL'OTTOCENTO
La proliferazione delle botteghe
Con la chiusura di una importante fabbrica quale quella dell’Inghirami, molti lavoranti impiegati in quella manifattura, forti dell’esperienza artistica che avevano avuto nella scuola annessa, aprirono propri laboratori, trasmettendo nei propri repertori l’esperienza artistica e commerciale già acquisita. L’Ottocento assiste così ad un aumento delle botteghe volterrane. Finito l’Impero Napoleonico, nel 1815 la riapertura dei commerci dette nuovo vigore all’artigianato alabastrino, che iniziò una sicura ascesa, lenta fino alla metà del secolo, vertiginosa dal 1850 al 1870, anni che furono i migliori del secolo per il commercio dei materiali di produzione volterrana. Grazie anche ai viaggi all’estero compiuti dai commercianti volterrani, i cosiddetti viaggiatori, le commissioni aumentarono ogni anno e, di conseguenza, le imprese artigiane si moltiplicarono e, in certa misura, si specializzarono nella realizzazione di prodotti specifici per la propria clientela.
Le manifatture volterrane si mostrarono molto attente nella scelta delle tipologie da utilizzare nella produzione di oggetti in alabastro. Le tendenze artistiche dell’epoca furono seguite molto dettagliatamente, in particolare furono adottati gli elementi e le decorazioni introdotti dallo stile neoclassico. Molto elevato è il numero delle riproduzioni di oggetti antichi, secondo la linea già adottata dalla Fabbrica Inghirami.
Un influsso importante provenne anche dall’introduzione di elementi decorativi orientali ispirati a quanto i viaggiatori vedevano nelle terre dell’estremo oriente. I motivi di ispirazione orientale e quelli neoclassici furono riuniti in un nuovo stile eclettico, che fu tipico di molti lavori dell’artigianato volterrano dell’Ottocento.
Le prime esposizione internazionali
Un notevole impulso alla produzione provenne anche dalla partecipazione degli artigiani volterrani alle esposizioni nazionali ed internazionali, dove i loro lavori ottennero apprezzabili risultati sia per quanto riguarda la commercializzazione, sia per la notorietà ottenuta dal questo tipo di artigianato. La più grossa impresa compiuta dai lavoratori volterrani fu la grande commessa che ottenne la ditta Tangassi dall’imperatore del Messico Massimiliano d’Asburgo. La nuova residenza imperiale doveva esse- re arredata con oggetti d’alabastro.
Per produrre tutto il materiale richiesto non bastavano i laboratori dei Tangassi, che riscorsero alla collaborazione di tutte le ditte che allora operavano a Volterra. La deposizione dell’imperatore impedì la spedizione di due grandi candelabri, che oggi possiamo ammirare nel palazzo Viti.
Questi due oggetti sono il manifesto delle possibilità tecniche e stilistiche allora raggiunte dall’industria volterrana. Eccezionali sono le dimensioni, misurano quasi quattro metri di altezza per un diametro di un metro e trenta, le varietà di alabastro impiegate, che coprono quasi l’intera gamma di pietre allora lavorate, la ricchezza e la delicatezza dell’ornato.
LE FABBRICHE ED I COMMERCI
La Fabbrica Inghirami
La fondazione dell’Officina Inghirami nel 1791 segna un punto di svolta nell’evoluzione dell’artigianato dell’alabastro. Marcello Inghirami Fei era convinto che la lavorazione della pietra volterrana poteva svilupparsi solo attraverso un’impresa di ampio respiro, di carattere internazionale, basata su uno studio dettagliato dei modelli, che dovevano seguire le tendenze della moda contemporanea, e sostenuta da una solida organizzazione commerciale.
La fabbrica fu impiantata nei locali dell’ex monastero di S. Dalmazio e impiegava oltre cento lavoratori. L’Inghirami volle perfezionare la produzione e darle un indirizzo artistico, per questo istituì una scuola di disegno e scultura per i suoi operai. Come insegnanti chiamò alcuni abilissimi maestri di disegno e scultura, sia italiani che stranieri: lo scultore Lorenzo Bartolini, il fiammingo Nazzard, il romano Cari, il torinese Castellari e, soprattutto, Bartolomeo Corneille, che seguì tutte le vicende della fabbrica fino alla sua chiusura.
Un marchio di fabbrica, realizzato intrecciando le iniziali di Fabbrica Marcello Inghirami Fei Volterra, doveva segnare ogni oggetto pro- dotto. Un manifesto originale, redatto in lingua francese, offre una preziosa testimonianza di come era organizzata la vendita, vi si possono individuare gli scopi della Fabbrica e viene descritta tutta la produzione.
Il manifesto ci informa che le opere erano destinate agli “amatori di belle arti”, con particolare riguardo agli appassionati di arte antica. L’elenco degli oggetti era per la maggior parte costituito da riproduzioni di sculture greche o romane. Fra i modelli trovavano posto statue famose come l’Ercole Farnese, l’Apollo di Belvedere, la Leda col cigno, ecc..
Oltre a queste sculture la fabbrica realizzava anche composizioni in stile classico, usate come casse per orologi, vasi di vario stile e di diverse dimensioni, destinati alla decorazione di saloni e stanze arredate in stile neoclassico, riproduzioni di monumenti, come archi di trionfo e obelischi. La produzione di oggetti di buon livello, ma replicabili a basso costo, grazie alla duttilità dell’alabastro, consentì all’Inghirami di ottenere un buon risultato sul mercato internazionale, grazie anche alla fama che Volterra ottenne come città etrusca in seguito agli scavi archeologici che vi si svolgevano da alcuni anni.
Con l’occupazione francese della Toscana, nel 1796, si riducono i traffici del porto di Livorno, principale punto di partenza per l’esportazione dei prodotti di alabastro. La crisi del mercato si riper- cosse sulla fabbrica che chiuse pochi anni dopo, nel 1799.
La Fabbrica Viti
Tra le più importanti fabbriche dell’alabastro sorte sul territorio volterrano, assume un ruolo di grande importanza la bottega diretta da Amerigo Viti, fratello del famoso viaggiatore Giuseppe. Uno dei meriti maggiori del giovane imprenditore volterrano è quello di aver cercato nuovi metodi di lavorazione e di utilizzo dell’alabastro a Volterra; in particolare queste ricerche portarono alla realizzazione del “commesso volterrano”. Con un procedimento in parte a noi sconosciuto, Amerigo Viti, riuscì ad individuare un tipo di lavorazione in grado di indurire e colorare l’alabastro, rendendolo simile alle pietre dure, realizzando così piani di tavolo ed altri oggetti, molto simili al “mosaico fiorentino”. Tale metodo di lavorazione portava l’alabastro a trasformarsi da pietra tenera in pietra dura, attraverso la cottura del materiale e la successiva immersione in acqua. Solo in una fase successiva si provvedeva alla colorazione, prima che il blocco venisse tagliato in sottilissime sezioni. Vengono così realizzati piani di tavolo raffiguranti fiori ed uccelli, riccamente accompagnati da motivi geometrici o arabeggianti, con una tipologia decorativa molto più semplice rispetto ai tavoli in pietra dura prodotti a Firenze. A questo proposito sono documentati, a partire dal 1852, rapporti con l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, a testimonianza della grande notorietà che tale tecnica aveva raggiunto anche al di fuori del territorio volterrano. Risale inoltre al 1858, la decorazione al merito industriale di prima classe da parte del Granduca Leopoldo II. La lavorazione del “commesso volterrano” permise alla famiglia Viti di farsi apprezzare anche in Europa, in particolare presso l’Imperatore Napoleone III, ottenendo anche una medaglia d’oro per i lavori in mosaico, conferita dalla Società delle Scienze Industriali, delle Arti e delle Lettere di Parigi. A partire dalla metà degli anni ’60, la fabbrica Viti cerca di utilizzare anche materiali diversi dall’alabastro per la realizzazione di oggetti d’arredo e da giardino. In particolare vengono fatti alcuni esperimenti sull’impiego dell’arenaria, nota anche come “pietra di zambra”, dal luogo dove veniva prelevata. L’uso dell’arenaria, ritenuta in un primo momento molto più resistente e meno costosa della terracotta, suscitò grande interesse, tanto da indurre la Real Accademia d’Arti e Manifatture di Firenze, di incaricare alcuni studiosi, sotto il controllo e la guida del conte Demetrio Finocchietti, di redigere una dettagliata relazione su tale pietra. Nonostante le premesse fossero risultate molto incoraggianti, le conclusioni furono negative; la commissione nominata si rese infatti conto della facile deperibilità dell’arenaria a contatto con l’esterno.
È possibile ancora oggi, visitando le sale del Palazzo Viti, ammirare alcuni esempi di questi splendidi oggetti in alabastro. All’interno del museo sono infatti conservati cornici, consolle, candelabri di gusto prettamente rinascimental-manierista, e splendidi vasi, caratterizzati, da un punto di vista decorativo dalla ripresa di motivi classici.
Di proprietà della famiglia Viti è anche un album di disegni (mm. 280 x 360) contenente 50 tavole realizzate a penna ed acquerello, da un autore sconosciuto. In questo album sono raffigurati vasi, crateri, tazze ed anfore, che riassumono lo stile ed il gusto propri della seconda metà dell’800. Come possiamo ammirare nelle immagini poste a fianco, cespi di foglie di acanto e d’alloro, racemi stilizzati e foglie di vite si uniscono a ricche decorazioni di gusto orientale, come draghi e fiori di loto stilizzati, ed insieme vanno ad adornare l’orlo ed il corpo di questi oggetti prettamente classici, talvolta alquanto bizzarri e di improbabile realizzazione.
I commerci dell’alabastro
Con l’istituzione da parte del cav. Marcello Inghirami Fei, a partire dal 1791, di una scuola di disegno e scultura nel soppresso monastero di S. Dalmazio, la manifattura dell’alabastro di Volterra subisce un importante metamorfosi sia artistica che organizzativa. L’arrivo nella città toscana di importanti maestri internazionali, permise l’acquisizione da parte dei numerosi allievi di un patrimonio culturale di notevole respiro. Prendono infatti avvio fabbriche specializzate, che producono ed esportano la pietra volterrana anche oltre i confini italiani. A fianco di questa importante produzione, si affermano anche altre attività parallele, quali per esempio quella dei “viaggiatori”, commercianti che rappresentavano le più importanti fabbriche d’alabastro di Volterra in ogni angolo del mondo. Il loro compito era quello di sorvegliare e vendere la merce, una volta arrivata a destinazione. In particolare dopo la Restaurazione del 1815, con il ritorno dei Lorena, prendono avvio numerose botteghe autonome che favoriscono un’importante ripresa della produzione e dei commerci anche fuori dall’Europa. Da ogni parte del mondo venivano inviate alle botteghe volterrane ordinazioni di oggetti d’arredo e sculture in alabastro e marmo. Le spedizioni venivano fatte partire solitamente da Livorno, alla volta di Londra per poi raggiungere le città più importanti e ricche del Nuovo Mondo. La fitta rete di commerci si estendeva sia in America Settentrionale (New York, Boston e Washington) come in quella Meridionale, interessando le città dell’Ecuador e Perù per poi proseguire fino a Buenos Aires e Rio de Janeiro. Per quanto riguarda l’invio di merci in Estremo Oriente, due erano le vie commerciali percorribili. La prima, attraverso la linea ferroviaria, interessava la rotta Alessandria – Suez per poi imbarcare le merci su vapori diretti verso i Paesi delle Indie; la seconda percorreva la via di Londra dove su bastimenti a vela, doppiando Capo di Buona Speranza, le casse arrivavano a destinazione. La via dell’Egitto era sicuramente quella più celebre e frequentata. Molto spesso per raggiungere anche le più vicine città d’Europa, le casse impiegavano mesi. Le cause non riguardavano solo i mezzi di trasporto, molto spesso di fortuna, ma sono da individuarsi anche nelle difficoltà di comunicazione tra chi spediva la merce e la ditta incaricata di effettuare la consegna. Una volta arrivati a destinazione, veniva affittato un magazzino con la funzione di deposito principale; da qui la merce affrontava un ulteriore viaggi nelle città vicine, alla ricerca di nuove piazze e ricchi mercati. Soprattutto nelle Indie, commerci di questo genere venivano svolti in occasioni di feste e cerimonie di qualche personalità importante, come Raja o ministri. Il viaggiatore era sempre alla ricerca di qualche manifestazione, dove aveva maggiori possibilità di esporre i propri oggetti in alabastro. Per quanto riguarda le tipologie culturali maggiormente presenti nell’ambito della produzione di oggetti in alabastro, la manifattura volterrana si mostrò molto attenta alle tendenze artistiche che si stavano affermando in Europa nel corso del XIX secolo. In particolare vengono adottati elementi e tipologie decorative tipiche dello stile neoclassico; un repertorio questo già utilizzato dalla Fabbrica Inghirami, dove molto elevato è il numero di “vasi all’etrusca” decorati con festoni e fregi, accompagnati da statue, mesci-roba e Tazze di Arianna. Cigni, zampe di leone, draghi alati, ghirlande, vanno ad adornare vasi ed anfore dal collo lungo e slanciato collo e caratterizzati da anse sinuose ed elaborate, rivisitate sotto forma di motivi vegetali stilizzati. Veniva prodotto ed esportato anche un elevato numero di copie tratte dalla statuaria antica o riproducenti capolavori di importanti artisti del passato, come Antonio Canova. In particolare trovano un vasto commercio le Tre Grazie, l’Apollo del Belvedere, la Venere e la figura dell’Arrotino. La perdita di gran parte dell’apparato documentario delle più importanti famiglie volterrane dedite a questo tipo di attività, ha impedito di delineare in maniera precisa la struttura organizzativa delle fabbriche, sia per quanto riguarda la produzione, che le vendite ed i percorsi commerciali maggiormente intrapresi dai viaggiatori volterrani.
Fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo, l’industria alabastrina conobbe vicende alterne, luci ed ombre causate anche da vicende internazionali, come la crisi economica mondiale del 1929, che provocò un brusco calo delle esportazioni.
Protagonista dei primi anni del ‘900 fu Giuseppe Bessi, chiamato Maestro dai contemporanei, che lavorò l’alabastro in maniera raffinata, realizzando busti e sculture di pregio, ancora oggi apprezzati per lo stile elegante e la sensibilità con cui ritraeva soprattutto bambini, fanciulle e donne adornate di trine e fiori scolpiti con estrema naturalezza.
In quegli anni la produzione era ambiguamente divisa fra opere di pregio, come le sculture del Bessi, gli ornati di Fabio Topi e i lavori di altri apprezzati artigiani, ed oggetti dal dubbio gusto, come ad esempio riproduzioni della Torre di Pisa e della Cupola di S. Maria Novella progettati come calamai o soprammobili.
Gli alabastrai erano consapevoli della scarsa qualità di questi prodotti che definivano “roba commerciale”, distinta dalle “opere di pregio”, e cercano di migliorare la produzione. Il 1905 segna una svolta con la nascita della Cooperativa Artieri Alabastro, che nelle intenzioni doveva riunire gli artigiani per creare una rete produttiva e commerciale per lo smercio di prodotti di qualità.
LE COLLEZIONI E LA NASCITA DEL DESIGN
Collezione Funaioli all’Istituto Statale d’Arte
L’Istituto Statale d’Arte di Volterra possiede una cospicua collezione di opere del maestro Luigi Albino Funaioli (Volterra 1830 – Firenze 1906) composta da 70 disegni a matita e 51 bassorilievi in alabastro bianco di Castellina e in gesso, dei quali qui si espongono significativi esemplari.
Scultore atipico e fortemente innovativo per quanto riguarda l’alabastro, Funaioli produsse opere che sono state definite “microsculture” ovvero bassorilievi di piccole e talora piccolissime dimensioni, come la celebre “Donna velata” grande poco più di 2 centimetri, in massima par- te ritratti dove l’autore esprime il meglio del suo virtuosismo tecnico.
I bassorilievi ovali di Funaioli restituiscono l’immagine viva di un mondo aristocratico amato e rappresentato in tutto il suo splendore. Stilisticamente risentono dell’opera di Ingres (attivo a Firenze – dove, più tardi, operò anche Funaioli – fra il 1820 e il ‘24) con i suoi richiami alla purezza formale del Rinascimento. I soggetti si riferiscono quasi esclusivamente a gentildonne e gentiluomini fiorentini o del bel mondo vittoriano (Funaioli visse e operò anche a Londra tra il 1857 e il ’60) che si alternano a celebri personaggi della letteratura e della storia della seconda metà dell’Ottocento (celebre il ritratto di Giuseppe Garibaldi). Sul piano formale essi rappresentano la testimonianza più viva e penetrante delle possibilità di una materia come l’alabastro.
Albino Funaioli fu, in sostanza, un grande e originalissimo maestro di quell’arte antica che si definisce “glittica” (termine che deriva dal greco gliptein che significa incidere, intagliare) e talune opere possono definirsi più propriamente cammei. Scolpire l’alabastro per farne appunto cammei o bassorilievi dalla superficie liscia e speculare è una tecnica di altissimo livello che necessita di arnesi particolari sicuramente costruiti per l’occasione.
Le fasi di lavorazione prevedono la sgrossatura, ovvero un abbozzo sommario dei contorni, cui segue la rifinitura e in ultimo la lucidatura. Con ogni probabilità l’autore fece uso anche del tornio. I bellissimi disegni conservati attestano che lo scultore si serviva assiduamente della matita per elaborare idee che poi trasferiva nelle sculture.
Le opere di questo artista volterrano che operò principalmente a Firenze e a Londra, pur rimanendo fortemente legato alla sua città di origine, si rivolgono ad una clientela colta e aristocratica, il ceto dominante al servizio del quale egli lavorava, ritraendone un’immagine patinata e celebrativa, e costituiscono significative espressioni di un artigianato di lusso che suscitò consenso e interesse.
Il design
Le alterne vicende dell’alabastro volterrano, che caratterizzarono l’inizio del ‘900 furono affrontate con la realizzazione di progetti per migliorare la qualità dei prodotti. Nei primi anni del secolo gli artigiani tornano ad essere presenti alle principali Esposizioni Internazionali ottenendo anche numerosi premi per la qualità e l’artisticità dei materiali presentati.
Nel 1906 viene organizzata a Volterra la prima “Mostra industriale degli Alabastri”, dove le fabbriche presentano i migliori oggetti presenti nel loro catalogo. La mentalità degli operatori tendeva però a non favorire una industrializzazione del settore, anche i primi tentativi di realizzare delle linee commerciali e dei modelli progettati con accuratezza vengono visti con perplessità. Luigi Mengoli, direttore della Scuola d’Arte Applicata fra il 1910 ed il 1924, fu il primo a tentare di sperimentare nuovi modelli da proporre sul mercato e a preparare gli allievi al “mercato”.
Fu solo nel 1933, però, con la nomina di Umberto Borgna a direttore tecnico artistico della Cooperativa Artieri Alabastro, che si assiste ad un effettivo cambiamento nella produzione. Borgna, che può essere senza dubbio definito il primo designer dell’alabastro, fu prolifico disegnatore, innovatore del linguaggio dell’alabastro, organizzatore di mostre e pubblicista.
Fino al 1940 si assiste allo sviluppo di un nuovo stile, che si basa su modelli realizzati studiando le tendenze artistiche ed i gusti contemporanei. Migliaia di disegni circolano per le botteghe e le fabbriche volterrane dove vengono prodotti vasi, posacenere, cornici porta- ritratto, lampade, scatole delle tipologie più disparate e destinate ad arredare le abitazioni della borghesia italiana ed europea, che in quegli anni ha a disposizione nuove ricchezze da investire in suppellettili alla moda.
Nel Dopoguerra la ripresa tarda ad arrivare, piuttosto che su nuovi modelli, si preferisce puntare su una migliore rete commerciale, con nuovi punti vendita distribuiti sul territorio, e sull’abbinamento del- l’alabastro con altri tipi di materiali, quali legno e metallo.
Per decenni la produzione alabastrina conosce un impulso straordinario legato alla realizzazione di oggetti seriali, contrapponendo l’artigianato alla lavorazione industriale. I prodotti di qualità seguono ancora gli stili tradizionali, sia quelli “classici” ispirati ai lavori ottocenteschi, che quelli legati ai progetti di Borgna.
La necessità di un nuovo design che rinnovi le tipologie torna elemento dominante del dibattito produttivo nei primi anni ’70, contemporaneamente ad una nuova crisi commerciale e alle nuove provocazioni culturali di artisti, come Mino Trafeli, che si cimentano con l’alabastro.
Nel 1974 nasce il Consorzio Produttori dell’Alabastro che, fra l’altro, ha lo scopo di promuovere lo studio e la ricerca di nuovi modelli, artisticamente validi, su cui caratterizzare la produzione dei soci. Una priorità è la creazione di un marchio di garanzia, che sarà applicato a partire dai primi anni Ottanta, contemporaneamente alla nascita del “Progetto alabastro”.
Il Consorzio coinvolgerà nelle proprie iniziative designer come Angelo Mangiarotti, che studierà una selezione di oggetti in alabastro realizzati in collaborazione con artigiani volterrani. Le due collezioni Axia e Velathri sono un tentativo di sviluppare nuovi modelli produttivi, elaborati con un’analisi attenta del materiale e un lungo lavoro di progettazione professionale.
Con gli anni, nonostante l’aggravarsi della crisi produttiva, si cimentano nello studio di nuove collezioni designer di chiara fama come Ugo La Pietra, Carla Venosta, Elio di Franco, Prospero Rasulo, ispirati dalle caratteristiche peculiari della pietra volterrana.
I viaggiatori dell’alabastro
da Volterra alle terre più lontane e sconosciute
Un esempio su tutti: Giuseppe Viti, uno dei personaggi più importanti della Volterra ottocentesca. Egli fu un esponente di quel movimento, unico in Italia, che gli storici locali definiscono dei “Viaggiatori dell’Alabastro”.
Agli albori dell’Ottocento, quando l’industria alabastrina intensificò gli sforzi per allargare la diffusione dei suoi prodotti sui mercati esteri, ebbe inizio quel caratteristico movimento di esportazione promosso appunto dai viaggiatori volterrani, i quali usavano accompagnare la merce per curarne lo smercio.
Da principio si provarono vendite sulle piazze italiane ed europee; i più animosi varcarono poi gli oceani e si inoltrarono anche in terre poco note agli europei; non vi furono più confini all’iniziativa di questi merchant adventures del secolo XIX. Si aprivano negozi al dettaglio o si facevano delle vendite per mezzo delle aste; il successo dipendeva più che altro dalla sorte: chi aveva la fortuna di indovinare la piazza buona, faceva ottimi affari e chi invece aveva la sventura di capitare in piazze sbagliate ci perdeva del suo e ci rimetteva chi gli aveva affidato merce e capitali.
Fonte: portale Volterracity
LA PROMOZIONE DELL'ALABASTRO NELLA STORIA
Negli scritti di Enrico Fiumi si conoscono le vicende delle prime importanti iniziative promosse nei primi decenni dell’Ottocento da alcune società, tra le quali Falchi, Zito, Da Sori, Inghirami; Lotti, Leoncini, Tangassi; Giovannoni, Mancini, Topi; Ruggeri, Norchi, Petracchi. Intorno alla metà dell’Ottocento più di cinquanta volterrani si trovavano all’estero a vendere gli alabastri; da citare l’attività di Vito Viti in America, il viaggio in Cina di Luigi Veroli, le presenze di Luigi Beccerini e Rodrigo Cherici a Malta, di Luigi Dello Sbarba a Odessa, di David Giovannoni ad Amburgo, di Pietro Guerrieri a Lisbona, di Pietro Lazzeri a Rio de Janeiro, di Giuseppe Parenti a Barcellona, di Michele Solaini a Marsiglia, di Pietro Spinelli a Batavia, di Luis Tangassi a Vera Cruz e di molti altri in ogni parte del mondo.
Il fenomeno di tutti questi viaggiatori è stato tanto importante per la propaganda dei nostri manufatti che lo Schanzer, quale incaricato del Ministero dell’Industria, riferiva nella sua relazione Le industrie artistiche italiane: gli alabastri di Volterra (1909) che l’industria degli alabastri fu conosciuta in tutto il mondo soprattutto per l’ardimento dei viaggiatori volterrani. Basti pensare a Giuseppe Viti, il più avventuroso della schiera, che, dopo aver venduto alabastri a New York, Baltimora, Boston, nel 1829 si recò nelle Indie Occidentali. Tra il 1841 e il 1845 fu al Perù, a Rio de Janeiro, a Buenos Aires. Rientrato in patria ripartì nel 1846 con molte casse diretto a Bombay. La sorte gli fu particolarmente favorevole. Girando le Indie fece fortunate vendite a Calcutta e a Luknow. Riuscì a diventare persino Emiro del Nepal e nel 1849 tornò in patria dopo aver accumulato una grande fortuna. Di lui discorsero, tra gli altri, Corrado Alvaro ed Antonio Baldini.
I viaggiatori volterrani, tornati in patria dopo lunghi viaggi all’estero, partecipavano, con le loro idee ed i loro capitali, al miglioramento della città. Essi investivano i risparmi nell’industria, nell’acquisto di beni, terreni, in nuove costruzioni, contribuendo alla prosperità generale. Il movimento dei viaggiatori proseguì anche nel corso dei primi decenni del Novecento. Intorno al 1925 molti volterrani erano in paesi lontani (Cina, Giappone, Messico, India) e ne citiamo alcuni: Guido Sardelli, i fratelli Maffei, Giusto Bessi, Ugo Mori, Giulio Gremigni. I viaggi non sono più avventurosi come quelli di cento anni prima, ma conservano il loro carattere imprevisto e rischioso. Sono scomparse le incertezze della navigazione, le difficoltà dei trasporti e delle comunicazioni, ma sono aumentati gli ostacoli frapposti al libero scambio delle merci fra paese e paese. Le spedizioni dei viaggiatori volterrani non sono state soltanto tipiche per la loro originalità, ma hanno avuto un’ importanza notevole nell’intero campo dell’esportazione, perché hanno permesso di entrare veramente nel cuore dei mercati stranieri e di interpretare il gusto delle popolazioni indigene.
Superata la triste recessione degli anni Trenta e il periodo del secondo conflitto mondiale, la manifattura degli alabastri si è meritatamente reinserita nel quadro delle tradizionali attività artigianali della Toscana. Già intorno agli anni Cinquanta il tipo di esportazione e di contatto con la clientela estera ha cambiato fisionomia. I compratori visitano le fabbriche per passare le commissioni oppure incontrano i fabbricanti in esposizioni fieristiche in Italia (Macef e Campionaria a Milano, Gift Mart a Firenze) ed all’estero.
Se quindi ancora oggi l’alabastro riveste un ruolo importante nell’economia del nostro comprensorio e resta il messaggero del nome di Volterra nel mondo intero, molto si deve al filone dei viaggiatori volterrani dell’Ottocento e dei primi del Novecento, pionieri di arte e di italianità.
Fonte: portale Volterracity
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